Proposta 2 – L’impresa formativa per i lavoratori svantaggiati occupati

Il problema

La “Proposta 1” ha ben delineato le caratteristiche di una impresa formativa che inserisca persone in situazione di vulnerabilità oggi non occupate; ma, come è noto, le cooperative sociali di inserimento lavorativo hanno già al proprio interno numerosi lavoratori svantaggiati rispetto ai quali si manifestano le problematicità che il Manifesto ha evidenziato: la ricerca, sotto la pressione della competizione di mercato, dello “svantaggiato meno svantaggiato”, l’auspicio poter essere cooperative di inserimento lavorativo anche con una quota minore di svantaggiati, la scelta di limitare o escludere del tutto supporti a per i lavoratori svantaggiati diversi dall’avere fornito – cosa comunque già importantissima – una opportunità occupazionale (escludendo quindi la presenza di offerta formativa, di sostegno da parte di operatori dell’inserimento lavorativo, di supporto alla ricollocazione in altre imprese ove la persona voglia farlo e sia in grado, ecc.).

Il motivo per cui ciò avviene è molto semplice: con l’eccezione di un numero limitato di imprese eccellenti o di circostanze particolari, i margini economici per sostenere tali azioni sono limitatissimi e sono diminuiti drasticamente nella fase della crisi economica; per cui un modello come la cooperazione sociale di inserimento lavorativo, pensato negli anni Ottanta – Novanta quando i margini esistenti consentivano alla gran parte delle cooperative, con il solo beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali, di attivare tutte queste forme di supporto, oggi incontra invece difficoltà crescenti.

Spesso chi lavora nelle cooperative B è mosso dalle medesime idealità di vent’anni fa, ma quando prova a realizzarle concretamente incontra difficoltà crescenti a metterle in pratica, con conseguente demotivazione e spaesamento; o è invece tentato di abbracciare a tutto tondo una filosofia di mercato, che giustifica questa evoluzione come naturale e forse anche desiderabile.

Insomma, la retorica del “doppio prodotto” – cooperative B in grado di assicurare il prodotto sociale dell’inserimento grazie alle sole risorse dell’attività di impresa – rischia di essere nella maggior parte dei casi un mero auspicio, una gabbia auto imposta, ma non più rispondente alla realtà dei fatti.

Va detto in modo chiaro: se si vuole assicurare che i percorsi di inserimento offrano possibilità di crescita personale, di incremento delle capacità delle persone svantaggiate, di integrazione, non è possibile lasciare tali funzioni al caso, alla disponibilità di qualche volontario, alla sporadica eccellenza di imprese in grado di destinare a ciò una parte di valore oltre misura rispetto alla media delle altre.

L’esperienza di questi trent’anni ci conferma che le persone in condizione di grave svantaggio hanno bisogno di essere accompagnate con questi supporti – talvolta per periodi definiti, talvolta per sempre – affinché il loro percorso abbia continuità. Sono funzioni di impresa che vanno adeguatamente finanziate nel tempo, altrimenti saranno irrimediabilmente trascurate quando l’impresa si trovi ad affrontare difficoltà economiche. Bisogna essere consapevoli che, in molti casi, lavorare sull’inserimento lavorativo è impossibile se non si opera al tempo stesso sul fronte dell’inclusione sociale.

Cosa sarebbe necessario

È chiaro che per le persone svantaggiate già occupate nelle cooperative B è necessario pensare ad un percorso diverso da quello evidenziato da Georges Tabacchi nella Proposta 1 per chi è al di fuori del mercato del lavoro. Proviamo a fare qualche ipotesi:

  • su 38 ore settimanali di lavoro, da 2 a 4 potrebbero essere dedicate a formazione specifica che incrementi la professionalità, sia a colmare talune competenze di base mancanti (lingua per stranieri, utilizzo PC, abilità sociali, ecc.);
  • ogni 10 lavoratori svantaggiati, è ragionevole pensare ad un operatore part time con funzioni specifiche sui percorsi di inserimento lavorativo (colloqui periodici con le persone inserite, contatto con i servizi invianti, verifica dei percorsi di inserimento, ecc.). Nella storia della cooperazione sociale tale ruolo è stato indicato come “operatore dell’inserimento lavorativo”, spesso uno dei lavoratori della cooperativa che, acquisendo specifiche competenze professionali, può dedicare una parte del proprio tempo lavoro appunto a questa funzione;
  • è inoltre ragionevole pensare che in strutture di maggiori dimensioni vi possa essere una figura di responsabile che coordina la parte di lavoro sociale sopra richiamata, con un congruo tempo lavoro a disposizione (il “responsabile dell’inserimento lavorativo”, nella tradizione della cooperazione B).

L’inserimento in questi percorsi deve essere oggetto di specifico “contratto formativo” esplicitato alla persona inserita, perché queste attività hanno possibilità di riuscita se all’offerta di servizi corrisponde un impegno personale nel percorso: cosa che può essere richiamata nella misura in cui è chiarita e accettata sin dall’inizio.

Se queste funzioni possono essere utili a tutti coloro che sono inseriti in un percorso di questo tipo, per alcuni è possibile ragionare circa possibili collocazioni esterne all’impresa a fine percorso. Si tratta di un agomento delicato, rispetto al quale entrano in gioco le capacità della persona, la sua volontà, la situazione del mercato del lavoro ordinario. In generale si può ritenere che possa essere in ogni caso utile una funzione di job coaching, in cui un professionista specifico aiuta la persona a fare un bilancio delle proprie compentenze e della loro spendibilità sul mercato del lavoro per poi pensare, ove la collocazione esterna sia asupicata e possibile, a funzioni di aiuto alla ricerca di nuova occupazione. Dal punto di vista dell’impresa sociale, se percorsi di questo tipo si diffondessero si avrebbe da una parte un impatto positivo sulla problematica che si genera con la permanenza per lungo tempo di persone ex svantaggiate, che tendono, in assenza di sbocco, ad affollare le cooperative rendendo difficile il rispetto della percentuale di lavoratori svantaggiati e l’accoglienza di nuovi inserimenti; dall’altra si genererebbero costi ulteriori perché la cooperative si priverebbero via via dei migliori lavoratori formati per dedicarsi ad altri in condizione di svantaggio.

Paradossalmente in tutto ciò non vi sono contenuti particolarmente originali rispetto alla storia ultradecennale della cooperazione sociale; ciò che è cambiato è il fatto che oggi, con l’eccezione di pochi esempi virtuosi, risulta oltremodo difficile fare tutto ciò con le sole risorse provenienti dai margini dell’attività produttiva; quindi rischia di non essere fatto.

Detto per inciso, vale su questo tema l’osservazione che ciò che non viene pagato non viene apprezzato. Le cooperative sociali hanno offerto (e in taluni esempi eccellenti ancora offrono) tutte queste funzioni senza aggravi per pubbliche amministrazioni o altri soggetti, ma questa insolita virtù ha contribuito paradossalmente al fatto che tale prodotto non sia percepito come tale, con la conseguenza che ad esempio molti enti locali, che in epoche passate destinavano risorse consistenti a convenzionamenti con le cooperative B, oggi tendono a non farlo ritenendo che in fondo siano soggetti simili a qualsiasi altra impresa. In fondo, sembrano pensare, imprese che danno lavoro a poveracci ci sono un po’ ovunque, l’una vale l’altra. Il mancato riconoscimento (anche economico) del “prodotto sociale” ha nel medio periodo portato al suo disconoscimento di fatto nelle politiche e nella cultura.

Affinché le funzioni di supporto all’inserimento lavorativo siano realizzate è pertanto necessario che siano adeguatamente cofinanziate da soggetti diversi dalla singola impresa; affinché ciò avvenga esse devono essere identificabili e tracciabili: la formazione deve essere certificabile da parte di soggetti accreditati e riconoscibile per la persona svantaggiata non solo sulla base delle ore formative svolte, ma anche della crescita professionale connessa al fatto di lavorare in un contesto ove è adeguatamente sostenuta; le azioni di tutoraggio all’inserimento lavorativo devono essere effettive e strutturate e non esauribili nel semplice “stare insieme” alla persona svantaggiata nel luogo di lavoro, così come le funzioni di ricollocazione, ecc.

Come finanziare tutto ciò?

Come è possibile sostenere questo complesso di funzioni, il cui costo va sicuramente calcolato con maggiore accuratezza, ma che in via provvisoria potremmo stimare in circa 5 mila euro all’anno per persona (considerando tutte le azioni indicate)? Facciamo alcune ipotesi:

  • Fondi interprofessionali: i fondi interprofessionali hanno come mission il rafforzamento delle competenze di lavoratori e lo fanno prevalentemente rendendo fruibili risorse provenienti dai lavoratori stessi. Ma se vi sono imprese che predispongono programmi specifici di sostegno a lavoratori particolarmente deboli, avrebbe senso che a ciò fossero destinate risorse aggiuntive. Esse potrebbero essere tratte, in via sperimentale, da un bando settoriale dedicato, per poi ragionare su meccanismi di finanziamento strutturali (es. quote di solidarietà tra fondi, quote aggiuntive allo 0.30% o altro);
  • Donatori istituzionali: le fondazioni sono state in questi anni soggetti importanti nella sperimentazione di azioni innovative; è evidente che politiche come quelle qui auspicate, prima di diventare strutturali e stabili grazie ai fondi interprofessionali, dovrebbero passare per fasi di sperimentazione e valutazione, cui le fondazioni potrebbero validamente contribuire;
  • I fondi mutualistici per lo sviluppo della cooperazione: tali fondi, alimentati dal 3% degli utili delle cooperative, hanno interesse a sostenere un’azione che qualifica la cooperazione, recuperandone i significati distintivi dalle altre imprese che, come si è visto, rischiano di essere oltremodo annacquati nell’attuale contesto;
  • Le imprese sociali: le imprese sociali avrebbero comunque intesse a sostenere direttamente questa funzione anche con risorse proprie, per marcare una propria alterità rispetto ad altre imprese e per qualificare maggiormente il proprio personale;
  • Le persone svantaggiate stesse: sono destinatarie di un’azione che le qualifica e le valorizza e, a parità di retribuzione lorda, percepiscono una retribuzione netta superiore a quella dei colleghi per effetto della fiscalizzazione degli oneri sociali carico lavoratore; se ad esempio non fossero retribuiti per la metà delle ore formative settimanali, ma le facessero al di fuori del proprio orario di lavoro, ciò costituirebbe un coinvestimento ragionevole in un programma che va a loro vantaggio senza deprimere la retribuzione netta;
  • Ultima, ma non ultima, la mano pubblica: ciò può avvenire in varie forme, dalla destinazione, soprattutto nella fase sperimentale, a tale finalità di risorse da fonti straordinarie (es. derivanti dalla programmazione comunitaria), ai fondi per formazione professionale (in fondo le ore formative sono pur sempre formazione accreditata, ancorché con regole e programmi da inventare).

La composizione di queste risorse dovrà seguire criteri diversi nella fase sperimentale, puntando maggiormente su elementi come la volontarietà, il coinvestimento e la capacità progettuale per poi evolvere, quando si sarà trovato un assetto soddisfacente, verso forme più stabili. Ciò non significa necessariamente che percorsi di questo tipo vadano adottati per tutti gli oltre quarantamila lavoratori svantaggiati delle cooperative di inserimento lavorativo, essendo comunque legittima la scelta che interpreta tale esperienza esclusivamente come “seconda possibilità” per persone con percorsi di vita difficoltosi; ma dovrebbe progressivamente rendersi disponibile per tutte le imprese che intendono attivarli e che rispettino requisiti di qualità che andranno via via definiti.

Infine va tenuto conto che i costi di tali interventi vanno calcolati tenendo conto che non tutte le azioni si svolgono contemporaneamente; è ad esempio possibile ipotizzare che le azioni prettamente formative siano fruite da uno stesso lavoratore solo per un certo numero di annualità e che le azioni di ricollocazione siano attivabili solo per alcune persone e solo in una determinata fase del loro percorso.

In che modo introdurre questa proposta?

Come già evidenziato, questa proposta richiede certamente una fase sperimentale e una messa a punto sulla base degli effettivi esiti conseguiti.

Ciò significa che potrebbe essere introdotta inizialmente su un numero ragionevole di imprese e di lavoratori svantaggiati (es. 200 persone svantaggiate, che con un’ipotesi di costi come quella sopra azzardata significa ripartire un costo di circa un milione di euro), per poi essere progressivamente allargata a numeri superiori.

Tale allargamento deve essere accompagnato da attività valutative, capaci di cogliere gli esiti di queste azioni tenendo conto di una pluralità di dimensioni (competenze, integrazione sociale, tenuta dell’occupazione, accesso all’occupazioni esterne alla cooperazione, salute delle imprese, ecc.).

Vale la pena sottolineare che tutto ciò, oltre a non essere originale in termini di ricette proposte, non lo è particolarmente nemmeno dal punto di vista del sostegno pubblico; per fare un esempio le azioni dell’Agenzia per il Lavoro della provincia di Trento hanno seguito per anni linee simili, con esiti assai positivi evidenziati da lavori di valutazione.

Insomma, si è consapevoli di non avere immaginato nulla di particolarmente innovativo; ma forse spesso, nel dibattito attuale, sfugge il fatto che in assenza di azioni come quelle qui proposte, un patrimonio decennale – non delle cooperative sociali in quanto tali, ma della nostra società – rischia di essere perduto senza che nemmeno ce ne si renda conto.

 Testo redatto da Gianfranco Marocchi

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