Chi prende in giro il Terzo settore

Chi prende in giro il Terzo settore. Le ipocrisie e i falsi alleati” è il titolo di un editoriale del Corriere della Sera di qualche giorno fa firmato da Ferruccio De Bortoli. L’argomentazione sviluppata è, in sintesi, la seguente: il Terzo settore ha contribuito in modo decisivo a sostenere il peso della crisi determinata dalla pandemia e “senza l’aiuto del Terzo Settore e del volontariato le sofferenze umane sarebbero state superiori, le solitudini personali maggiormente dolorose, il costo economico ancora più devastante”, anche perché, ricorda il Corriere “il welfare non è solo sanità. È fatto anche di altre cure, sostegni, vicinanze, affetti. Un insieme di gesti solidali che finora ha contributo a garantire un accettabile livello di coesione. Un cuscino sociale, chiamiamolo così, a disposizione della parte più debole del Paese, degli invisibili, dei dimenticati.” Di ciò si trovano testimonianze nei tanti siti che hanno raccolto esperienze di resilienza sociale che hanno visto imprese sociali e altri enti di Terzo settore protagonisti (si veda ad esempio Isnet, Legacoop, Animazione Sociale e lo stesso Ministero del Lavoro e delle politiche sociali).

A fronte di questo, il sostegno delle istituzioni è stato scarso, tanto che, chiede Il Corriere al Governo, “il futuro del Terzo Settore è tra le vostre priorità o lo state soltanto prendendo in giro con false promesse e pacche sulle spalle?” La domanda non riguarda solo l’assenza di misure a favore del Terzo settore, ma ancor prima una filosofia che, in modo strisciante, affligge secondo le parole del Corriere la componente pentastellata del Governo e anche una parte del PD: il pregiudizio, figlio in ultima analisi di una concezione autoritaria, secondo cui, in aperto contrasto al principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione, lo Stato è “unico titolare del bene comune”, mentre l’azione gli altri soggetti che operano per l’interesse generale (e in particolare quelle di ispirazione religiosa) sono investite da una diffidenza alimentata da scarse conoscenze e superficialità. Di qui la “disattenzione, al limite della sciatteria” con cui le istituzioni considerano il Terzo settore, come testimoniano, a 4 anni dall’approvazione della legge 106/2016, l’ancora parziale attuazione della riforma (manca ancora il Registro Unico, uno dei cardini essenziali del suo funzionamento), il mancato invio della richiesta di autorizzazione alla Commissione europea per le disposizioni fiscali previste dal Codice del Terzo Settore, l’assenza di una delega specifica sul Terzo settore all’interno del Governo. Tutto ciò mentre l’Europa prepara l’Action plan for social economy che richiederà ai Paesi programmi credibili in ambito sociale e ambientale.

La posizione espressa da De Bortoli non è certamente isolata. Si pensi a diversi contributi pubblicati su Impresa Sociale, che da trent’anni osserva, interpreta e dà voce alle imprese sociali italiane. A proposito dei provvedimenti anticrisi, scrive: “non solo il settore non è stato al centro di questi provvedimenti ma ci sì è dovuti impegnare in ripetute battaglie per evitare che le misure adottate discriminassero parte o tutti gli Enti di Terzo settore (esito che ad un certo punto pareva per nulla scontato)”; o Carlo Borzaga, che a proposito del “Piano Colao” scrive: “se va riconosciuto che finalmente il Terzo Settore è considerato nelle sue potenzialità in un documento generale di politiche economiche e sociali, il lavoro del Comitato degli esperti dimostra che per un pieno e concreto riconoscimento del Terzo Settore non solo come insieme di interventi più o meno rilavanti, ma come insieme di attori con proprie specificità e risorse, c’è ancora molto da lavorare.”

Le citazioni, anche da parte di altri media, potrebbero continuare, con esito simile: è vero che qua e là, a seguito dell’azione di pressione o delle proteste, il Terzo settore e in specifico l’impresa sociale sono infine stati inclusi nelle misure di contrasto della crisi, ma il percorso culturale che porta ad una piena comprensione del loro ruolo è ancora lunga. La narrazione della crisi li ha dimenticati (di “eroi dimenticati” scriveva Andrea Bernardoni ad aprile su Welforum), la politica, come si è visto li ha considerati in modo residuale.

Ciò che emerge è la necessità, come giustamente scrive De Bortoli, prima ancora che di misure specifiche, di una diversa cultura, che consideri la costruzione del bene comune come responsabilità diffusa e condivisa e il Terzo settore come suo protagonista.

Questo, oggi, non è solo più un auspicio, ma un richiamo chiaro della Corte Costituzionale che con la Sentenza 131 (vedi tra i tanti gli articoli di Marocchi e Gori) apre la strada ad un diverso modo di pensare al Terzo settore nel perseguimento dell’interesse generale; con la conseguente definizione di rapporti orizzontali, paritari, collaborativi con le pubbliche amministrazioni nelle diverse forme (coprogrammazione e coprogettazione) che la Riforma del Terzo settore ha disciplinato. A partire da questo storico atto, è possibile costruire una nuova consapevolezza che eroda i pregiudizi e le superficialità di giudizio che in questa fase sono pesate sulle politiche del Governo.

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