EDITORIALE

L’editoriale è il luogo dove Abele Lavoro periodicamente condensa, come esito di un processo partecipativo, la propria proposta culturale.

Ci si arriva a partire dalla discussione tra gli operatori del consorzio e dalle cooperative associate, estesa poi ad altri soggetti, cooperative e non, che vorranno condividere la nostra riflessione.

La condivisone su temi concreti è il punto di partenza per costruire nuove alleanze che nascano dai contenuti e non dalle appartenenze.

Il senso del lavoro

Il senso del lavoro

È strano parlare di lavoro ad agosto, in questo mese storicamente dedicato alle ferie, ma è anche vero che in questi giorni meno pressati dal fare rimane un po’ di tempo per pensare. Allora ne approfitto.

Nello specifico, il tema su cui vorrei si avviasse un confronto è il seguente: si è ampiamente diffusa nei media una narrazione che racconta il lavoro molto spesso in termini negativi: il lavoro come sfruttamento, caporalato, luogo di diritti negati, di insicurezza e di morti bianche, assenza di tutela, lavoro nero, ecc.; e poi ancora il lavoro come fatica, mancanza di senso, spersonalizzazione e così via. Ai giovani si dice che i primi contatti con il mondo del lavoro, durante i PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), sono disastrosi, non danno nulla ed espongono a rischi. Certamente tutto ciò nasce da situazioni reali e altamente problematiche, che è giusto siano denunciate e perseguite; ma ora quello che vorrei chiedermi è come si possa pensare che i giovani debbano darsi da fare per il proprio futuro lavorativo se la narrazione che ne viene data è solo questa. Chi mai è incentivato ad investire energie per entrare a far parte di un mondo del lavoro come quello sopra descritto? Forse, prima di incolpare il reddito di cittadinanza, se le persone sembrano poco interessate al lavoro, dobbiamo chiederci se a questo contribuisca in primo luogo un’immagine diffusamente negativa del lavoro.

E quindi: è possibile proporre una diversa narrazione del lavoro che non neghi o minimizzi i problemi esistenti, ma che al tempo stesso riesca a comunicare quanto il lavoro possa essere un momento fondamentale per trovare la propria l’autonomia e per essere parte di un processo di costruzione collettiva di valore sociale? Ed è da qui che vorrei ripartire: dall’idea di autonomia, di consapevolezza e capacità che il lavoro ti dà. La parola autonomia ti riporta alle molte competenze necessarie che ti devi costruire nella giovane età. Sapere fare e riconoscere quello che si ha, quello che si è ottenuto e si potrà ottenere. Essere autonomi vuol dire sapere gestire il quotidiano e mettere insieme più realtà, dal lavoro alla famiglia, le incombenze di casa, le amicizie, gli hobby, parliamo di un sistema complesso che richiede metodo. Il compito degli adulti e delle istituzioni è di mettere i giovani nelle condizioni di poterlo fare. Interessante permettere alle coppie di potere accedere ai mutui per la prima casa anche con contratti a tempi determinati. La continuità occupazionale, tuttavia, rimane una questione che va affrontata.

Il lavoro deve essere un’estensione della tua personalità, ti deve assomigliare; quindi, è un orizzonte che va coltivato e successivamente realizzato. Non è un’occasione che ti capita e che devi prendere ad ogni costo, ma è il frutto della consapevolezza di sé. Non è semplice capire al volo qual è il lavoro che fa per sé, va esplorato e sperimentato.

A sua volta, il lavoro ti costruisce, ti plasma, è un sistema organizzato fatto di regole e gerarchie, simile a quello che può essere un gioco di squadra, dove ognuno ricopre un ruolo. Il lavoro è un ambiente, fatto di relazioni, di spazi, d’incontri, un sistema che ti dà delle conferme e ti definisce.

Il tempo lavoro, occupa buona parte del nostro tempo. Il lavoro è dignità, ti permette di camminare a testa alta davanti ai tuoi figli raccontandogli quello che fai, anche quando si tratta di lavori umili, ma fondamentali per la collettività. Non è un’identità esclusiva, o perlomeno non dovrebbe esserlo, ma ne fa parte.

Il lavoro è fatica ed è per questo che viene retribuito. È un’affermazione banale, ma se non ci fosse la fatica non avrebbe senso la retribuzione. Il lavoro è legato a risultati, ad obiettivi da raggiungere, a ritmi e prestazioni. E di qui arriviamo al reddito: quello che va monitorato e governato dalla politica e dalle aziende è il potere d’acquisto che va garantito e che permetta di arrivare a fine mese. Il rapporto tempo lavoro, fatica e reddito devono essere in equilibrio e permettere gli standard di qualità promossi dalla nostra società. Il salario orario minimo in questo senso offrirebbe un parametro universale di riferimento per regolare i contratti, gli stipendi, le gare d’appalto, ecc.

È difficile parlare ad altri di lavoro se non si riparte dal proprio sentire, dalla propria esperienza, come testimoni che sanno guardare oltre le prime pagine e i titoli roboanti dei quotidiani, oltre le ideologie di parte. Abbiamo la responsabilità di una narrazione possibile del lavoro di oggi e per domani, esercitiamola. La discussione è aperta!

Movimenti e rappresentanze

Movimenti e rappresentanze

In questi anni il Consorzio Abele Lavoro ha investito energie, insieme a molti compagni di strada, nell’elaborazione culturale e nella proposta politica. Questo percorso ci ha portato spesso ad interrogarci sulla relazione tra queste iniziative spontanee, “di movimento” e le organizzazioni che hanno come compito la rappresentanza del movimento cooperativo. Si è consapevoli che questa riflessione è bel lontana dall’essere compiuta, ma si è comunque ritenuto utile condividerla, nella speranza che possa contribuire ad avviare un confronto.

Cosa accade

Partiamo da alcune esperienze che hanno coinvolto anche il nostro consorzio: 300 organizzazioni che sviluppano, nelle tre edizioni della Biennale, un’azione culturale sul tema della Prossimità; un centinaio che aderiscono al Manifesto per l’inserimento lavorativo; circa mille persone che, in pochi giorni, fanno proprio durante il lockdown l’appello con sei proposte per il rilancio del Paese centrate sul ruolo del Terzo settore. Ma anche molto altro, nel Terzo settore italiano: l’azione sviluppata da diversi cartelli di organizzazioni sul fronte della povertà a metà degli anni Dieci, da cartelli come Miseria Ladra, Alleanza contro la Povertà – l’esempio di maggiore successo in assoluto nel nostro Paese – e ora il Forum Disuguaglianze Diversità; le tante aggregazioni di enti e di persone che in questi anni hanno sostenuto politiche per l’accoglienza e contrastato le derive securitarie con appelli, manifesti, lettere aperte, raccolte firme.

Il Terzo settore italiano ha voglia di movimento e ha voglia di fare politica. Si è dimostrato in grado di aggregarsi su temi specifici, di trovare e rilanciare posizioni comuni, spesso di ottenere una certa visibilità e di contribuire in misura maggiore o minore a orientare le politiche e il clima culturale del Paese. Si mobilita non per salvaguardare propri pur legittimi interessi – ad esempio per contrastare una norma che impone nuovi gravami fiscali – ma per temi di interesse generale, riscoprendo una funzione di advocacy o comunque di produzione culturale che talvolta sembrava smarrita. Si mobilita collettivamente, in alcuni casi con obiettivi politici definiti (approvazione / abrogazione di una legge, come nel caso dei cartelli sul tema della povertà e dell’accoglienza), talvolta in forma di movimento che si propone di portare all’attenzione pubblica un tema e stimolare confronto e consapevolezza, come nel caso della Biennale della Prossimità.

Questa tendenza alla mobilitazione collettiva non è in assoluto nuova. Si pensi al comitato “Il welfare non è un lusso” che oltre dieci anni fa aggregava numerosi enti per contrastare i tagli dei fondi alle politiche sociali che dal 2008 in poi hanno depotenziato il nostro sistema di protezione sociale o, andando ancora più indietro e pensando ad ambienti culturali a noi prossimi, il cartello “Educare, non punire” di fine anni Ottanta sul tema delle dipendenze. Ma sicuramente questi ultimi anni sono stati particolarmente vivaci e soprattutto contrastano una lettura del Terzo settore ripiegato su se stesso e sulla propria sopravvivenza.

Il ruolo delle rappresentanze

La domanda sorge spontanea: in tutto ciò, che ruolo ha il sistema di rappresentanza e in specifico, per quanto ci riguarda, le rappresentanze del movimento cooperativo? Come si sono poste e si stanno ponendo quando gruppi di loro associati sviluppano un contenuto culturale o politico e lo pongono all’attenzione pubblica? Sono esse stesse luogo di elaborazione e sviluppo? Sono propense ad accogliere questi stimoli o al contrario li trattano con fastidio, come un’indebita interferenza in un ambito di azione che ritengono a loro riservato? Non vi è dubbio che vi siano state fasi in cui le rappresentanze del movimento cooperativo hanno giocato un ruolo di rilievo anche su questo fronte contribuendo a creare valori e identità del movimento cooperativo, ma oggi è ancora così? E, in ogni caso, tale ruolo fa parte del mandato dell’organizzazione oppure no?

Questa domanda va contestualizzata tenendo conto di tre fattori relativi al fenomeno della rappresentanza. Il primo è l’impegno nel difendere gli interessi legittimi delle cooperative; come è evidente, in questi anni si è tra l’altro trattato spesso di una partita in difesa, a fronte di provvedimenti che tendono a ignorare le specificità delle imprese sociali. Questo lavoro di “recupero” è estremamente defatigante, richiede di mettere a frutto relazioni e capacità di influenzamento – notoriamente, beni scarsi – avendo come possibile esito positivo il mantenimento dello status quo o anche solo la limitazione dei danni. Assorbe energie consistenti e richiede di spendere su questo fronte il numero non infinito di situazioni in cui si può contrastare il potere senza mettere a rischio la relazione. Dunque, si può immaginare, se si conduce una dura battaglia sul tema della fiscalità, spesso si dovrà rinunciare a farne un’altra sull’accoglienza. Tutto questo può spiegare perché le rappresentanze del movimento cooperativo, pur presenti su una pluralità di temi legati alle funzioni di tutela, siano stati invece relativamente inerti su altri fronti.

Il secondo fattore riguarda la complessità del movimento cooperativo, dove convivono, anche all’interno della singola Centrale, soggetti e orientamenti tra loro molto diversi. In altre parole, mentre sul chiedere di non pagare più tasse ragionevolmente si è tutti d’accordo, non è detto che la stessa comunanza di vedute vi sia su temi specifici, dove invece emergono distinzioni non sempre facili da mediare. E allora diventa più facile non occuparsene proprio, limitandosi ad azioni di tutela degli interessi.

Infine, a livello di rappresentanza, possono assumere rilevanza considerazioni “tattiche”: le reazioni che la stampa, l’opinione pubblica, taluni stakeholder possono avere e i riverberi su altre partite. E dunque possono essere portate a mantenere un profilo basso in alcune occasioni per non danneggiare la possibilità di interlocuzione su altri fronti. Per fare solo un esempio, la relativa assenza delle organizzazioni di rappresentanza sul dibattito quando nell’autunno 2018 vennero introdotti i decreti Salvini può spiegarsi con una valutazione sulle reazioni che l’opinione pubblica avrebbe avuto, accusando le imprese sociali di contrastare la stretta sull’immigrazione perché interessate a mantenere gli introiti sulla gestione dei centri di accoglienza.

Il risultato

Da una parte il bisogno della cooperazione sociale e del resto del Terzo settore di produrre pensiero, cultura, cambiamento, di fare politica. Dall’altra le rappresentanze che agiscono su altri piani. Potrebbe scaturire una sorta di spontanea e consensuale separazione dei compiti, una presa d’atto dell’attuale equilibrio di tra soggetti e istanze diverse, con un reciproco riconoscimento e valorizzazione. Ma non sempre questo accade.

Da parte dei soggetti culturalmente attivi nasce la sensazione di essere trascurati dalla propria organizzazione di rappresentanza, lasciati soli ad affrontare delle battaglie nelle quali troverebbero naturale avere al proprio fianco un soggetto forte e ben strutturato nel quale si riconoscono. Possono accusare le organizzazioni di rappresentanza di essere timorose, di far prevalere considerazioni “di convenienza” allo schierarsi secondo giustizia.

Da parte delle organizzazioni di rappresentanza può nascere il timore che questi movimenti spontanei delegittimino il proprio operato: in sostanza che diano adito a malumori da parte di altri associati che rimproverano appunto l’assenza o l’inerzia della rappresentanza; o peggio, che agendo in modo scomposto rechino un danno ad azioni più complesse che chi si occupa di rappresentanza sta svolgendo e che la “base” tende a non comprendere, pur essendo svolte nel suo interesse. E questo è sentito come una mancanza di fiducia, una delegittimazione, che quindi lede al prestigio della rappresentanza anche al di là dei contenuti effettivamente proposti.

Quindi?

Non si ha la pretesa di trovare una soluzione ad una questione complessa né di indicare alle organizzazioni di rappresentanza dovrebbero fare. Ma forse alcune cose è possibile dirle.

La prima è che la rappresentanza non deve temere la presenza di soggetti attivi, partecipi, culturalmente intraprendenti. Sono una ricchezza per tutto il movimento, portano un patrimonio di idee e proposte che vanno valorizzate. Anche laddove vi siano motivi, come quelli sopra richiamati, per non inserirle nell’azione di rappresentanza, anche quando esse possono coincidere con la sensibilità di solo una parte dei propri associati, la presenza di soggetti pensanti, in grado di elaborare proposte, di stimolare un confronto collettivo, di animare il dibattito politico, è un capitale sociale da coltivare e sviluppare.

Bisogna essere consapevoli che cultura e rappresentanza seguono percorsi differenti. La rappresentanza deve seguire passaggi tali da garantire che le posizioni espresse si formino con procedimenti adeguati a legittimarle; la cultura segue percorsi diversi, non trae forza dai numeri di chi aderisce, ma dai contenuti che esprime. È costitutivamente un po’ anarchica e incontrollabile e tanto è vero che quando si trasforma in voce istituzionale diventa presto noiosa.

Certo, la rappresentanza ha poi il compito di comporre istanze culturali diverse, ma il fatto che le idee si sviluppino e si confrontino è necessario, affinché tale composizione non si attui a partire da concetti ripetitivi e scontati.

Conclusione

Risposte semplici non ce ne sono. Ma se in questi anni chi fa rappresentanza si è spesso trovato a giocare di rimessa, a dedicare energie per limitare i danni rispetto a tentativi di marginalizzare le nostre esperienze, è anche per l’affermazione di un clima culturale ostile. Giocare di rimessa, essere efficaci nel limitare i danni di una proposta di legge sgradita è importante, ma non riesce a toglierci dall’angolo. Bisogna che accanto a ciò si sviluppi una capacità di elaborazione, di invenzione, che richiede la disponibilità ad uscire dagli schemi. Per questo gli indisciplinati, quelli che esplorano, che propongono, sono importanti, un piccolo tesoro.

E di qui si può ripartire. Perché da questa consapevolezza è possibile andare alla ricerca di nuovi equilibri e sinergie, oggi tutti da costruire.

Di fronte alla miseria

Di fronte alla miseria

Si riproduce di seguito un articolo di pubblicato da Georges Tabacchi, presidente del Consorzio Abele Lavoro su Welforum, uno dei più prestigiosi media online che si occupa di welfare. Lo stesso autore ha pubblicato su Welforum nei mesi scorsi Il distanziamento educativo in tempo di pandemia e Le distanze in comunità: chi tutela chi?.


 

Una storia vista tante volte

È difficile per noi operatori sociali confrontarci con la miseria. La miseria: non è solo indigenza, ma anche limitazione delle capacità, delle competenze professionali e sociali, relazioni rarefatte, passato (e presente) opprimenti. La miseria significa persone con le quali c’è poco da fare, sono rivendicative, poco collaborative, sono persone con le quali è difficile anche iniziare a pensare ad un progetto di cambiamento.

Ma comunque ipotizziamo delle soluzioni, qualcosa lo vogliamo lo stesso fare, non ci sentiremo a posto nel rimandare a casa la persona a mani vuote. Un po’ per l’insopprimibile volontà di aiutare, un po’ per reazione difensiva, facciamo un tentativo: ecco, ad esempio, possiamo organizzare un tirocinio presso quella cooperativa che sa essere accogliente, comunque una piccola borsa c’è, è un’esperienza in più e poi così avrà un po’ di soldi in tasca, chissà che non sia un buon inizio per risollevarsi.

Ma quel tirocinio presto fallisce: la persona ammalata di miseria “salta”, è andata per qualche giorno, poi non si presenta più o si presenta in condizioni incompatibili. È la conferma che sì, con quel caso non vi è proprio nulla da fare; e nella nostra testa di operatori sociali nasce una voce che con gli anni si fa sempre più invadente: se solo non fossimo tenuti a perdere tempo con queste persone, si potrebbe lavorare meglio; ci vengono in mente gli altri utenti, meno miseri, meno rovinati, con cui invece si può fare un buon lavoro e ci risuona uno strano e inquietante miscuglio di parole che mette insieme la vocazione al cambiamento tanto radicata nel mandato professionale (i servizi devono pur aiutare le persone a cambiare, a migliorare!) e logica efficientista: quanti ne abbiamo aiutati oggi, quanti progetti hanno avuto successo, quale è stato l’impatto misurabile del nostro lavoro? Questo, il “misero”, sicuramente no, non lo abbiamo salvato, continuerà ad arrancare mezzo sommerso come sempre e – il passo è breve – noi quindi siamo stati inutili.

L’operatore sociale di fronte alla miseria

Lavorare con la miseria è difficile, spesso frustrante. L’operatore ha l’impressione di essere d’un tratto atterrato in un paese lontano, ostile, sporco, sconosciuto e pericoloso; è guardingo, sulla difensiva, in uno stato di ansia permanente. La miseria e la sofferenza sono portatrici di contraddizioni, di ambivalenze, di cattivi odori, di troppi perché che non trovano risposte.

E se proviamo ad entrarci, dentro le storie di miseria? A guardarle da dentro, ad accompagnarle?

Non illudiamoci: sono storie che sono e rimangono dolorose e anche quando le si guarda da dentro, la fatica non si allevia. Però insieme alle fatiche è possibile vedere anche altro. È possibile intravedervi malgrado tutto percorsi di crescita, di conoscenza di sé, capacità di resilienza impensabili. Si scoprono storie, mondi reali non scontati anche per chi da anni opera nel sociale che ti trasportano e ti lasciano il segno.

Miseria e sofferenza non sono solo deriva, biografie trascinate verso il basso da una corrente che non si riesce a controllare. Sembra impossibile, ma anche dietro a quelle storie vi è un’identità che le persone si costruiscono. E non è solo l’identità trasandata che arranca senza meta, è anche esperienza su come sopravvivere in situazioni estreme, storie di solidarietà inattese, pensieri con cui una persona ha costruito un’immagine di sé.

Questa è la prima consapevolezza che l’operatore sociale deve maturare: che ciò che si trova davanti, oltre alla miseria, ha sempre una dignità che va riconosciuta, non è solo un insieme di situazioni e caratteristiche da estirpare. Tutto ha una storia, tutto si è costruito, tutto ha preso corpo piano piano ed è diventato quello che è, non è un vuoto su cui costruire da zero.

E questo ha delle conseguenze. La prima, per la persona in situazione di miseria, è che quel poco, quel quasi niente che si è costruito è un piccolo tesoro, l’unico piccolo tesoro di cui dispone e che può essere difficile separarsene senza che ciò crei smarrimento. Con gli occhi dell’operatore, avere una casa quando prima si dormiva per strada è senz’altro un passo avanti, ma quel dormire per strada – e reti di solidarietà sotterranee, le abitudini che hanno accompagnato quella vita – oltre che una sofferenza è stato per la persona l’unica cosa che ha imparato a fare, l’unica che, tra l’altro, sa fare meglio dell’operatore che si trova di fronte, il luogo dove ha costruito quello che è.

Certo chiede di cambiare. Chiede una casa, un lavoro, rivendica, pone questioni. E probabilmente può effettivamente cambiare, ma non senza fare i conti con l’identità che sta lasciando. Può volerci tempo, possono essere necessari pazienza e vicinanza.

La seconda è che ogni cosa guadagnata deve poi essere difesa, e questo chiede energia; e chiede fiducia nelle proprie capacità. Ma chi non riesce o non ha più voglia di lottare – chi gira per strada con una valigia, un carrello del supermercato e un cane vicino, chi ha l’anima e il fisico logorati dalla sofferenza – cerca di non avere nulla da difendere. Ogni passo che l’operatore vede come opportunità di reinserimento richiede anche l’energia per saperla mantenere, pena una nuova esperienza di sconfitta che non farà altro che confermare alla persona la sua inadeguatezza. E allora è meglio, per chi vive nella miseria, chiedere l’impossibile avendo a mente di non cambiare, urlare che nulla funziona per allontanare la convinzione di essere una persona sbagliata.

Ma in questo chiedere e richiedere, in questo chiedere per non ottenere, va letta anche un’altra profonda esigenza, che è quella di continuare a stare in relazione. È una specie di gioco di ruolo in cui la persona in miseria che ha iniziato a fidarsi teme più di tutto il diventare un “caso chiuso”, sistemato, una persona di cui non c’è più bisogno di occuparsi perché si è offerta una risposta prestazionale.

E quindi anche per l’operatore è in agguato un senso di frustrazione. Si è rivolta a me una persona bisognosa di tutto, mi ha fatto delle richieste, tutti mi dicevano che non dovevo credere in quella persona, io invece l’ho fatto, ho investito per cercare una risposta e gliela ho messa a disposizione, e lui non l’ha sfruttata. Volevo esserci, ero dalla sua parte, perché a differenza di altri ero consapevole di quanto la sua sofferenza derivasse da ingiustizie subite, ma lui mi ha tradito. E, dopo un po’ di situazioni di questo tipo, le esperienze negative dell’operatore si consolidano in sfiducia nel proprio lavoro, in una sensazione di non essere adeguato, nella convinzione che i servizi siano inutili. E in sfiducia nella relazione, quella che porta l’operatore a sentire la relazione come una fatica da cui sfuggire anziché come il bello del suo lavoro. Quella che porta anche in una comunità, dove si vive insieme, a dilatare i tempi in ufficio anziché con le persone, sicuramente per le crescenti incombenze burocratiche, ma non solo.

Ricostruire il senso del cambiamento

Come porsi di fronte a tutto ciò? Se la posizione forte, quella del cambiamento efficientistico, risulta frustrante, potremo essere tentati di abbandonare qualsiasi idea di utilità dell’intervento sociale, con la scelta di rifugiarsi al di fuori della relazione. Come ricostruire un discorso in cui collocare in modo diverso la prospettiva del cambiamento? Proviamo ad immaginare delle tappe.

In primo luogo, è necessario ascoltare per conoscere. Non perdere nella consuetudine del lavoro la capacità di avvicinarsi alle storie delle persone non fermandosi al manifestarsi dei fenomeni. La miseria ha anch’essa una storia, una vicenda che ha portato la persona a vivere le fatiche in cui oggi si trova. Partire da qui e non dall’interrogarsi sulla prestazione da attivare per un determinato caso è il punto di partenza.

Poi è necessario condividere spazi e tempi in una logica di prossimità. È un setting diverso da quello tipicamente prestazionale, in cui una scrivania divide il richiedente aiuto da chi può erogarlo. Il “fare insieme” continua ad essere il veicolo della contaminazione, del riconoscersi reciprocamente. Crea uno spazio in cui la relazione può svilupparsi.

Si tratta poi di accettare, da parte dell’operatore, di essere un compagno di viaggio temporaneo, non necessariamente risolutivo; ma il fatto stesso di esserci, di entrare in relazione, di scambiare con l’altra persona, è di fatto una grandissima opportunità reciproca di crescita. L’operatore deve vivere con serenità e senza asia da prestazione questa parzialità, nella consapevolezza che non esiste una relazione meccanica tra intervento e risultato, ma che ogni tassello che la persona ha ricevuto potrà contribuire a comporre – forse – una leva per il cambiamento.

 

In questo tratto di strada comune, certamente l’operatore ha occasione di mettere a disposizione delle opportunità, sapendo che l’altra persona ha tempi che vanno rispettati e che nulla può essere imposto. E soprattutto senza dimenticare che la prestazione non è la relazione: la relazione è importante a prescindere, sia quando dà luogo a un’opportunità specifica di aiuto, ma anche quando è semplicemente incontro e costruzione di fiducia.

Bisogna sempre ricordare che questi percorsi non sono lineari. L’incongruenza, la cosa detta e poi non fatta, la speranza disattesa, il fallimento, ne sono parte. Questo richiede certo pazienza e tolleranza nei confronti dell’altra persona, ma anche serenità da parte dell’operatore sociale nel non leggere queste situazioni come un proprio fallimento. È importante vivere il proprio lavoro con leggerezza, che non è distacco o superficialità, ma la capacità di attraversare le diverse fasi della relazione. Mantenere la leggerezza nella relazione spiazza e conforta, non carica sé e l’altro di aspettative improprie, mantiene aperta l’idea che le evoluzioni sono possibili, anche quando qualcosa non va nel modo giusto.

Insomma, l’elemento che continua a essere dirompente, è la capacità di vedere nella relazione ciò che l’altro non vede più o non ha mai visto di sé. Qualcosa di vero, di autentico che si è colto dalla storia, che si è rafforzato nella relazione. Apre alla speranza.

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