Finisce l’esperienza di 25 anni nelle scuole

Ancora meno spazio per le persone in difficoltà. 

3 marzo 2020: con la decisione dello Stato di porre termine all’esperienza della cooperazione sociale nei servizi alle scuole assumendo al contempo una parte dei lavoratori, si chiude un’era. Già altri hanno messo in luce le conseguenze sulle persone e sulle imprese che per 25 anni hanno offerto un servizio importante alle scuole e al territorio; qui vogliamo provare a sviluppare un ragionamento sul significato politico di questa scelta.
La presenza della cooperazione sociale nelle scuole ha origine a Torino tra il 1994 e il 1995 accompagnandosi con tre atti di grande significato politico.

Il primo è un protocollo di intesa con cui nei mesi precedenti all’affidamento dei servizi scolastici (allora di competenza comunale) città e cooperazione sociale avevano definito un’alleanza per l’inclusione lavorativa delle fasce deboli. Un atto politico di grande peso, un pieno riconoscimento della capacità della cooperazione sociale di essere a fianco delle istituzioni nel perseguire interessi pubblici. Insomma, a fronte dei problemi di quella difficile fase – lo ricordiamo, erano gli anni in cui la Fiat diede luogo ad uno dei cicli espulsivi più significativi nel suo progressivo disimpegno verso la città – Comune e cooperative sociali erano i soggetti seduti insieme ad un tavolo a ragionare su cosa fare sul fronte delle politiche del lavoro: su cosa fare insieme, come alleati, per affrontare un problema comune. Non a caso nello stesso periodo, accanto all’affidamento dei servizi scolastici nascono altre operazioni analoghe della Città nel settore verde mentre AMIAT sceglie di inserire la clausola sociale nell’affidamento per la raccolta differenziata della carta, ad esito del quale anche le nostre cooperative avrebbe avuto un impulso decisivo.

Il secondo atto è di qualche anno successivo. Quando a seguito della modifica dell’art. 5 della legge 381/1991 non fu più possibile procedere a rinnovare gli affidamenti alle cooperative con gli stessi strumenti amministrativi sulle scuole, sarebbe potuto già allora finire tutto: bastava dire, da parte del Comune, “ci spiace, la legge è cambiata, non si può fare, ce lo dice l’Europa”. Ma non andò così: la Città di Torino riteneva strategico il partenariato con le cooperative sociali, investì sul fronte giuridico e “inventò” a fine 1998 un regolamento che anticipava di vent’anni quanto l’Europa ha fatto proprio nel 2014 parlando di criteri sociali negli affidamenti. Anche a partire dalla vicenda delle scuole, ha individuato un dispositivo – non impugnato negli oltre vent’anni successivi – per affermare che ha senso, da un punto di vista politico, che un Comune che affida un servizi si ponga il problema degli esiti sociali del proprio atto in termini di posti di lavoro per persone svantaggiate e che pertanto era doveroso riservare una quota di affidamenti a commesse con questo tipo di caratteristica. Questo regolamento della Città di Torino venne poi fatto proprio, con le dovute modifiche, da diversi comuni italiani.

Il terzo atto risale ai mesi in cui la vicenda scuole ebbe inizio. I sindacati mugugnavano, avrebbero voluto assunzioni pubbliche, i genitori si agitavano, pensando ai loro bambini messi a contatto con persone poco raccomandabili. La Città di Torino ci mise la faccia. Gli assessori del tempo, Bruno Torresin assessore al lavoro e Paola Pozzi assessore all’istruzione, girarono da una scuola all’altra a difendere l’iniziativa, confrontandosi con la prevedibile ostilità di talune assemblee e spiegando l’importanza dell’intera operazione. Metterci la faccia è un passaggio non scontato ma non accessorio, in questi casi.
Il resto è storia: storia di cose che funzionano, di persone recuperate, di scuole che di lì in avanti hanno fatto a gara per avere anche loro “le cooperative”.

E di istituzioni che nel corso degli anni hanno però a poco a poco perso il senso politico di quanto si era fatto, facendo prevalere prima le logiche di mercato che hanno ispirato gli appalti Consip, poi l’orientamento neo statalista che ha definitivamente archiviato l’esperienza delle cooperative. Via via che il tempo passava, che forze diverse attaccavano da vari lati l’operazione scuole, le ragioni che l’avevano ispirata divenivano sempre più sfumate; al massimo si è riusciti a tenere parzialmente posizioni mettendo in luce le possibili conseguenze occupazionali della estromissione delle cooperative, ma le istituzioni non sono più state capaci di cogliere (o noi di spiegare) che la cooperazione sociale di inserimento lavorativo è e deve essere qualcosa di più che un luogo di collocamento: deve essere uno dei partner primari delle istituzioni per ragionare di politiche del lavoro rivolte a fasce deboli. Il resto è una conseguenza.

Certo, oggi prevale il rammarico è per le persone che da questa operazione resteranno escluse, per quelle che avranno a soffrirne, per le imprese che ci hanno investito in questi anni, come ben spiegato nel già citato articolo. Ma deve anche svilupparsi la consapevolezza che sulla consapevolezza politica a culturale si gioca una parte importante del nostro futuro: perché una cosa è “contare” in forza alla capacità di rappresentare i nostri interessi – cosa sacrosanta – una cosa è riuscire, come nella fase in cui l’operazione scuole è stata concepita, a interpretare un ruolo guida sul fronte politico e culturale. La lobbying senza la legittimazione politica e culturale non basta, la legittimazione politica e culturale sembra un mero costo, un passatempo un po’ intellettuale, un distogliersi dal vero lavoro quotidiano; ma oggi più che mai abbiamo consapevolezza di quanto sia importante.

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